Oltre la pazzia

La deistituzionalizzazione delle strutture manicomiali conseguente all’azione riformatrice che nell’ambito della psichiatria si è innestata nel solco degli anni Settanta, passa attraverso secoli di internamento dei pazienti psichiatrici, fra salite impervie e tortuose, alla conquista di una dignità esistenziale che solo in anni relativamente recenti è stata riconosciuta.

Esemplificativa in tal senso può essere la consultazione dell’archivio storico dell’Ospedale Psichiatrico di Aversa, reso disponibile grazie al progetto Nazionale denominato “Carte da Legare”[1] il cui obiettivo è quello di promuovere una cultura della diversità, partendo dalla memoria degli stessi pazienti psichiatrici per una “ridefinizione critica dei paradigmi della psichiatria”[2].

Prima che venisse istituito l’Ospedale Psichiatrico di Aversa, nel Regno di Napoli i malati di mente erano confinati nel cosiddetto “Ospedale degli Incurabili” che accoglieva le più disparate tipologie di pazienti e riservava uno spazio specifico destinato ai pazienti psichiatrici, detto “Pazzeria”[3].

L’Ospedale psichiatrico di Aversa venne istituito nel 1813, in seguito ad un decreto di Gioacchino Murat che stabiliva il ricovero dei pazienti psichiatrici in una struttura deputata “esclusivamente al ricovero dei malati di mente [….] onde ottenersene, con misure efficaci il ristabilimento”[4].

Il provvedimento murattiano risente del fermento rinnovatore della Rivoluzione francese e concepisce il fine dell’istituto di cura aversano più in un’ottica terapeutica che detentiva. La direzione del manicomio venne affidata a Giovanni Linguti, fautore dei metodi non repressivi, secondo la lezione del medico francese Philippe Pinel.

Contrariamente a quanto si possa ritenere, l’ospedale aversano si distingueva in questa fase storica iniziale come un’istituzione all’avanguardia in cui i pazienti psichiatrici venivano curati in modo alternativo attraverso la musica, la recitazione o mediante semplici attività di tipo agricolo o artigianale.

In breve, la fama delle terapie innovative praticate nel manicomio di Aversa si diffuse in numerose corti europee, suscitando la meraviglia dei visitatori che rimanevano “attoniti del vedere per esempio un biliardo fra i pazzi, dell’udirli suonare e cantare e talvolta recitar commedie e conversare con chicchessia affabilmente; non più catene, [….] alla reclusione antica” si preferisce “il beneficio della vita attiva ed i giocondi passatempi e le salubri passeggiate”[5].

L’insieme di queste pratiche terapeutiche atte a distrarre i pazienti, intrattenendoli in piacevoli occupazioni, rientrava nel cosiddetto “trattamento morale”[6], basato sull’ascolto e la conversazione “quasi prodromi del potere che la psicanalisi darà alla parola. La guarigione era affidata per la maggior parte alla capacità di persuasione del medico e alla disponibilità continua nei confronti dei pazienti”[7].

In un periodo in cui, in assenza di psicofarmaci, si ricorreva frequentemente ai metodi repressivi, tali terapie alternative destavano a maggior ragione un certo stupore.

Una pratica usuale nella cura dei pazienti psichiatrici era infatti quella dei salassi mediante l’applicazione di sanguisughe sul loro corpo (persino sull’ano e sulla vulva), i bagni a sorpresa nell’acqua fredda, l’uso di catene per assicurare la contenzione o quello dei purganti che avrebbero espulso dal paziente le sue parti folli, e per gli accessi furiosi più irriducibili le percosse o l’imposizione del digiuno.

Nonostante la filantropia che animava il Linguti ed il personale al suo seguito, l’epidemia di colera del 1816 e le scarse condizioni igienico sanitarie che si vennero a determinare all’interno del nosocomio, unitamente al sovraffollamento di pazienti provenienti da tutto il Mezzogiorno d’Italia, generarono situazioni di emergenza difficilmente risolvibili.

L’apertura di un nuovo manicomio a Palermo nel 1824 contribuì solo in parte a decongestionare il manicomio aversano, mentre, al contempo, sorsero numerose cliniche private con l’obiettivo di assicurare un ricovero in un ambiente più sereno e organizzato.

Il manicomio di Aversa, tuttavia, continuò, anche dopo la direzione del Linguti a raccogliere gran parte dei pazienti psichiatrici del Mezzogiorno.

Alla terapia morale si affiancarono vere e proprie attività lavorative: all’interno della struttura i pazienti erano impiegati in lavori di tipografia, falegnameria, muratura e alle donne venivano commissionati il bucato, la stiratura, il rammendo, le pulizie e la cucina. Col passare del tempo, si consoliderà sempre di più l’impego dei pazienti psichiatrici in attività lavorative tanto che sarà necessario provvedere alla costruzione di laboratori all’interno dei quali presteranno servizio retribuito operai specializzati e infermieri, con specifiche esperienze professionali con il compito di seguire i pazienti durante il lavoro.

Durante le attività ricreative o lavorative i pazienti psichiatrici interagivano fra loro, ma al di fuori di queste erano destinati a dormitori separati in base alla classe sociale di appartenenza e al tipo di patologia che presentavano, questo perché si riteneva che fosse necessario evitare il cosiddetto “contagio morale”[8] che si verificava quando pazienti affetti da differenti stati di alterazione venivano in contatto fra di loro:

“Si è osservato che gli inquieti con le continue grida e col rumore che cagionano, commuovono gli altri infermi ed eccitano in essi il furore o la demenza rendono più grave e che gli allegri ben tosto divengono tristi se si accompagnano ad essi”[9].

Grande importanza veniva inoltre attribuita alla pulizia dei locali e dei pazienti e al rispetto delle regole (pratica che si riteneva contribuisse alla rapidità della guarigione), ad una corretta alimentazione.

Tuttavia, nonostante il frequente ricorso alla terapia morale, non erano stati abbandonati i metodi repressivi allora tradizionali, come il bagno freddo a sorpresa, l’elettricismo, le percosse, le catene, la camiciola di forza, la stanza oscura, i letti di repressione di legno a forma di bara “ove il folle si metteva vestito del corpetto di forza e i piedi, affinché non si muovesse, gli si legavano con catene di ferro”[10]. Frequente era anche la pratica della repressione verticale che consisteva nel tenere il paziente legato con le spalle al muro, senza che potesse muoversi per molte ore.

Dopo la metà del diciannovesimo secolo, grazie alla direzione di Miraglia, le pratiche terapeutiche dell’ospedale di Aversa contribuirono alla ricerca scientifica, mediante la presenza dei pazienti psichiatrici alle lezioni di Medicina presso l’Università di Napoli; altrettanto frequenti erano le autopsie sui cadaveri dei pazienti del manicomio i cui organi venivano asportati ed esibiti nel museo craniologico dell’ospedale[11].

Nel 1843, a cura di Miraglia, fu dato alle stampe della tipografia del morotrofio il primo periodico di psichiatria in Italia, in seguito, nel 1878 venne inaugurato all’interno della struttura anche un osservatorio meteorologico per studiare le possibili connessioni fra clima e patologia psichiatrica.

Con il passaggio della direzione da Miraglia a Virgilio la progettualità relativa all’edilizia manicomiale fu anteposta alle stesse pratiche terapeutiche, come se questa “potesse essere l’unica protagonista delle procedure di cura e custodia”[12]. Allo stesso modo, Virgilio, per decongestionare il manicomio di Aversa, asserì fermamente l’importanza che ogni provincia avesse un proprio manicomio.

Fu così che dal 1871 al 1901 in dodici province italiane nacquero altrettanti nosocomi.

Nel frattempo, Virgilio, asserendo “l’origine morbosa della delinquenza”[13], riteneva fondamentale garantire una specifica custodia ai cosiddetti “detenuti maniaci”, così, nel 1878, presso le carceri di S. Francesco di Paola ad Aversa, venne realizzata per i “criminali maniaci” una sezione specifica che in seguito diventerà il primo manicomio criminale italiano.

La legge [14]sui manicomi varata nel 1904, introducendo l’intervento della magistratura nell’ambito delle procedure relative ai ricoveri, “accentuava la caratteristica custodialistica dei manicomi” e “ attribuendo la definizione di ‘pericoloso per sé e per gli altri’ a coloro che non avevano un comportamento consono al pubblico decoro, faceva dell’internamento in queste istituzioni la soluzione a tutti i problemi sociali. Agli psichiatri veniva riconosciuto un grosso potere, in quanto ad essi era demandata la decisione di ammettere e dimettere il malato di mente. In un’epoca in cui il rapporto fra cittadino e Stato era esclusivamente di tipo autoritario, il manicomio diventa sempre più lo strumento ideale per il controllo sociale di ogni tipo di “devianza”, l’internamento diventa funzionale a bloccare qualunque tipo di ‘follia’ che minacciasse l’ordine pubblico”[15].

La pubblica sicurezza diventa dunque la finalità prioritaria degli istituti manicomiali, la segregazione e l’isolamento dei pazienti psichiatrici vengono realizzate al di là delle finalità terapeutiche che avevano invece animato gli alienisti ottocenteschi.

Il manicomio di Aversa andava via via assumendo sempre più l’aspetto di un luogo di reclusione in cui vigevano sovraffollamento, cattive condizioni igienico sanitarie, pessima alimentazione e carenza di personale medico e infermieristico.

Vengono inoltre introdotte nuove terapie come l’insulinoshock, l’elettroshock, la malarioterapia[16], la lobotomia prefrontale transorbitaria, la pneumoencefalo-anemizzazione[17].

A partire dagli anni Cinquanta si verificò un cambiamento delle pratiche terapeutiche in seguito all’introduzione dei neurolettici che pur riducendo i sintomi psicotici del paziente e favorendo il suo reinserimento sociale, lo rendevano tuttavia catatonico e anedonico. In maniera efficace si ricorre anche ai tranquillanti e agli antidepressivi. Una vera e propria “rivoluzione in campo psichiatrico paragonabile all’introduzione della penicillina nella medicina generale”[18] fu considerato l’uso della clorpromazina per attenuare i deliri e le allucinazioni.

In seguito all’introduzione degli psicofarmaci i pazienti psichiatrici diventano più inclini al rispetto delle regole, le crisi di agitazione hanno durata ridotta ed il ricorso ai metodi di contenimento diventa sempre più raro.

L’azione innovatrice di Basaglia nel 1970 non sortisce un immediato effetto sul manicomio di Aversa.

In seguito, la legge n. 180 del 1978, abrogando definitivamente la legge n. 36 del 1904 che aveva trasformato i manicomi in strutture detentive, ridefinisce in toto i paradigmi dell’assistenza psichiatrica stabilendo, all’articolo 1 che “gli accertamenti e i trattamenti sono volontari” e frantumando il potere dei direttori delle strutture di psichiatria nei confronti dei pazienti. Viene inoltre sancito dalla nuova legge “il passaggio dall’amministrazione provinciale al servizio sanitario nazionale, dalla psichiatria (manicomi) alla salute mentale (prevenzione, cura, riabilitazione, ricerca nella sofferenza psichica; collegamento con tutti i campi sanitari e assistenziali attinenti), con forte ampliamento campale di competenze”[19]. Allo stesso modo si pensa di passare alla costituzione di specifiche strutture sul territorio, ma la realizzazione della legge si scontra con la difficoltà di trovare personale specializzato e un’adeguata sistemazione per i pazienti che da anni erano ricoverati nelle strutture manicomiali.

Nonostante l’entrata in vigore della legge n. 180 del ’78, il manicomio aversano rimase in vita per un ventennio, sebbene la legge 724/94 avesse disposto la definitiva chiusura dei manicomi. Il percorso di dimissione dei pazienti è stato tortuoso e difficile, molti di loro vengono reinseriti nelle famiglie di appartenenza, altri nell’ambito di strutture residenziali. L’ultima dimissione avverrà nel mese di giugno 1999[20].

La parabola del manicomio aversano, lunga quasi due secoli, è la stessa di molte strutture manicomiali italiane che non sempre hanno potuto garantire un adeguato inserimento ai pazienti dopo la dimissione, spesso vissuta come abbandono.

Tuttavia con il processo di deistituzionalizzazione delle strutture manicomiali si è aperta la sfida lanciata negli anni Settanta, volta alla riacquisizione della dignità esistenziale dei pazienti psichiatrici in un contesto che sostituisce all’internamento, una logica di erogazione integrata di servizi alla persona, al fine di garantire un reinserimento sociale in termini di uguaglianza di diritti.

 

 

[1] Il circuito nazionale del progetto “Carte da legare” già realizzato anche per altri storici ospedali psichiatrici a Milano, Roma, Venezia, Firenze e Perugia, si basa sull’adozione di criteri omogenei e data base consultabili al di là dell’organizzazione che era stata attribuita a ciascun archivio nel periodo preunitario.

[2] C. Carrino- R. Di Costanzo, Le case dei matti. L’ospedale psichiatrico ‘Santa Maria Maddalena’ di Aversa 1813-1999, Napoli, 2011 p. 2. Si rimanda a questa pubblicazione per un approfondimento sull’argomento.

[3]Cfr. Vittorio Donato Catapano, Appunti per la storia dei movimenti psichiatrici in Campania, in “Giornale storico di psicologia dinamica”, Aversa, 1977,vol. I, fasc. 2, p. 209

[4] Vittorio Donato Catapano 1977, p. 217 (cfr. supra, nt. 1)

[5] G. Parente, Origini e vicende ecclesiastiche della citta’ di Aversa. Frammenti storici, Napoli, 1858, II, p. 332

[6] “ La cura morale fa il pregio principale della casa di Aversa”, L. Sertori, Memoria sulla Real Casa di Aversa, p. 4, in AS NA Ministero dell’Interno, I inv, b. 1846

[7] C. Carrino- R. Di Costanzo 2011, p. 29 (op. cit. p. 1)

[8] Giuseppe Santoro, Trattato sull’alienazione della mente umana, Napoli 1827, p. 33

[9] F. Volpicella, Della cura della follia e delle Reali Case de’ Matti in Aversa, in “Annali Civili del Regno delle due Sicilie”, Napoli 1834, fasc. VII, marzo-aprile, p. 116

[10] Volpicella 1834, p. 122 (op. cit. n. 9)

[11] F. Cascella riferisce che nel Museo del manicomio erano conservati circa quattrocento crani crminali F. Cascella. Il R. Manicomio di Aversa nel I centenario dalla fondazione: 5 mggio 1813- 5 maggio 1913: cenni cronistorici, Aversa 1913, p. 109 e B. Miraglia, Museo patologico del Reale Morotrofio di Aversa, 1863

[12] Carrino-Di Costanzo 2011, p. 32

[13] G. Virgilio, Sulla Istituzione dei Manicomi Criminali in Italia, in “Archivio Italiano delle Malattie Nervose”, Milano 1877, anno XIV, fasc. V e VI.

[14] La legge n. 36 del 14 febbraio 1904

[15] Carrino-Di Costanzo 2011, p. 35

[16] La pratica consisteva nell’inoculare la malaria in pazienti paralitici, a questo scopo era stato allestito all’interno della struttura un allevamento di zanzare.

[17] La pratica “consisteva nell’introdurre gli ammalati in cassoni metallici, lasciando fuori solo la testa, dai quali veniva aspirata tutta l’aria e creato il vuoto assoluto, in modo da indurre uno stato precomatoso per anemia cerebrale da interrompersi prima che si verificassero fenomeno irreversibili”. (Carrino- Di Costanzo 2011, p. 38, n. 72). Sulla lobotomia sappiamo che “era una tecnica piuttosto approssimativa e non perfettamente conosciuta e fu fortuna che non si ebbero casi letali” (G. Cascella, L’ospedale psichiatrico S. Maria Maddalena di Aversa (1813-1985), in ‘Psichiatria oggi’, Aversa 1986, p. 140, n. 6

[18] E. Schorter, Storia della psichiatria. Dall’ospedale psichiatrico al Prozac, Milano 2000, p. 251

[19] Carrino-Di Costanzo 2011, p. 42

[20] Carrino- Di Costanzo 2011, p. 44