Le basi concettuali

Del metodo di approccio.

Quando mi trovo di fronte ad una richiesta di intervento prima di tutto cerco di identificare le principali figure coinvolte. La persona da cui parte la richiesta d’aiuto nel caso dei minori non è quasi mai il diretto interessato e questo pone di per sé una specifica modalità di approccio. Il richiedente aiuto pur non essendo il ‘paziente’ rappresenta in realtà il principale depositario della natura del problema, della passione o sofferenza che caratterizzano nel suo significato etimologico il Paziente.

Si entra dunque da subito in un’ottica allargata dal punto di vista relazionale. Non abbiamo un paziente bensì la sofferenza è spostata a diversi livelli. Se è sempre valido il concetto della malattia psichica come una espressione di una disfunzione sistemica, familiare, sociale, è purtroppo vero anche che troppo spesso questa verità viene allontanata per illuderci di racchiudere il problema in un unico corpo o peggio ancora ci si limita a trattare un singolo problema, il ‘sintomo’, piuttosto che un individuo.

Centrale dunque risulta prima di tutto analizzare i contesti in cui i sintomi si esprimono maggiormente per estrapolare i significati funzionali, i cosiddetti benefici secondari al sintomo. Il termine sintomo (dal greco σύμπτωμα: evenienza, circostanza; a sua volta derivato da συμπιπτω: cadere con, cadere assieme) indica un’alterazione, riferita dal paziente, con delle implicazioni inerenti al contesto.

Questo shift (dall’individuo su cui si esprime il sintomo ad uno o più familiari, spesso i genitori) nella ‘consapevolezza di malattia’ o in modo più sfumato di ‘bisogno di aiuto’, determina un cambio di direzione nelle attenzioni che il clinico rivolge.

Fondamentale ritengo infatti il volgersi verso; il clinico non è un esperto verso cui il paziente si volge. Certo un primo approccio del paziente o di un suo familare, tutore, è il presupposto indispensabile; ma il primo compito del clinico (dal Greco klino, mi piego verso) è quello di volgersi, avvicinarsi, chinarsi verso il paziente

Questo gesto del chinarsi nella mia esperienza si esprime nell’estrema attenzione riposta durante l’ascolto plurimo dei componenti della famiglia. Spesso infatti la soluzione del problema risiede proprio nel ‘dare voce’ ai diversi ‘attori’ della scena clinica, per cui non mi limito mai nelle mie consultazioni ad un ‘esame diretto del malato’ ma piuttosto tendo a favorire l’espressione di coloro che per loro natura tendono ad essere silenti o soverchiati da altri magari più capaci di manifestarsi, di farsi sentire. Questo concetto dell’efficacia comunicativa è di fondamentale importanza oltre che nell’ottica sistemica di raccolta delle informazioni anamnestiche, anche nella lettura di alcuni sintomi, spesso con significato comunicativo elevato, volti evidentemente ad esprimere vissuti emotivi che non è possibile manifestare verbalmente e in forme più evolute e consapevoli.

Molto spesso dunque la consultazione verte su una raccolta di informazioni, di vissuti esperenziali soggettivi che messi assieme gli uni con gli altri, confrontati e riconosciuti ciascuno per il proprio sentire, assumono un significato più ampio e condiviso, comune appunto. Il proprio pensiero attraverso questa essenziale ‘funzione comunicativa’ dello specialista si integra con il pensiero ed i sentimenti vissuti dal resto dei familiari. Ed è così che la fase di consultazione iniziale, nella sua funzione di ricerca di vissuti, di decodifica dei significati dei comportamenti problematici, di riassetto dei pensieri delle parti in gioco (spesso fino ad allora condensati in informi oggetti per contundere in conflitti dialogici), di per sé già rappresenta una fase fondamentale e spesso risolutiva delle problematiche oggetto di cura.

Qui si inserisce l’importante definizione del concetto di cura, a mio avviso più ampio del concetto di terapia. Quantomeno nella comunità scientifica attuale occorre tenere presente che il termine terapia viene utilizzato con attenzione a quelle azioni la cui efficacia è dimostrabile in termini di evidenza scientifica e per le quali viene definita una cornice teorica e una specifica tecnica di utilizzo.

Il termine cura invece può essere ancora utilizzato senza rischi di fraintendimento ed è a me molto caro perché richiama il concetto di ‘prendersi cura’, prendersi a cuore (come risulterebbe dalla connessione etimologica fra cura e cor, cuore) . Nel momento in cui noi prestiamo ascolto e attenzione dunque ci prendiamo cura; ci offriamo come ‘contenitore’ di un disagio e cerchiamo di ‘riordinare’ quanto ci gira attorno (in termini di ansie, preoccupazioni, azioni, rievocazioni, reazioni, disattenzioni, negazioni ecc.); la cura consiste nella restituzione di una realtà modificata, in cui la mediazione ha prodotto consapevolezza e dunque maggiore competenza nella gestione del disagio.

In tal senso i modi in cui prendersi cura sono molteplici e tutti importanti, rientrando nell’esercizio del prezioso ruolo della mediazione del significato delle diverse esperienze, e riguarda dunque una complessa attività di diagnosi intesa nella sua accezione più profonda (di gnosis, ‘conoscenza), mediazione del clinico che necessita di un’elevata esperienza, formazione e professionalità.

Le terapia riguarderà le tecniche ritenute efficaci in termini di comprovate evidenza scientifiche (farmacoterapia, psicoterapia, alcune tecniche di riabilitazione ecc.).

Per concludere, ad una prima consultazione con il sottoscritto quando necessario si accede ad un ciclo di incontri definiti per comodità di ‘valutazione’, al termine dei quali è possibile esprimere un’ipotesi diagnostica, prospettare le strategie di intervento (tipi di terapia, altre modalità di cura) eventualmente ancora necessarie e al contempo verificare i miglioramenti sopraggiunti.