Scuola e pandemia
Il disagio di questa generazione di figli non è, dunque, in sé vittimistico, ma reale. Nel nostro lavoro clinico lo vediamo apparire chiaramente sotto forma di un aumento significativo delle dipendenze patologiche (alcoolismo, disturbi del comportamento alimentare, abuso di sostanze e degli oggetti tecnologici), delle depressioni, degli attacchi di panico, delle fobie sociali e delle tendenze autolesive. La Scuola si è trovata in questa congiuntura drammatica ad essere investita di un compito supplementare: non solo quello di preservare la didattica in condizioni di lavoro anomale, ma quella di custodire la dimensione umana della relazione, il legame sociale che istituisce la vita della Scuola. La tendenza era già attiva nel tempo pre-Covid: di fronte ad una crisi diffusa del discorso educativo la Scuola è stata un punto di tenuta collettivo essenziale di questo discorso. Molto spesso ha dovuto vicariare una funzione genitoriale assente o calmierare la sua distorsione di fronte a genitori incapaci di sopportare la frustrazione inflitta ai propri figli, necessaria, in realtà, ad ogni processo di formazione.
Insomma, già prima del Covid la funzione educativa della Scuola risultava indispensabile nel correggere la tendenza egemone del nostro tempo che è quella di ritenere i nostri figli sempre in una condizione di diritto e mai di dovere, sempre in una condizione di deresponsabilizzazione e di alibi perpetuo. Ma il cataclisma dell’epidemia ha ridisegnato bruscamente il campo. Assegnare oggi assoluta priorità alla cura delle relazioni sul valore strettamente cognitivo delle valutazioni, non significa affatto prolungare la cultura della deresponsabilizzazione e dell’alibi. Non dobbiamo dimenticare che quando la voce degli studenti si è alzata in questo tempo di crisi pandemica (non con la forza che avrebbe dovuto purtroppo), si è sempre alzata per difendere la Scuola e la sua riapertura necessaria. E’ un cambiamento di postura radicale che andrebbe messo in valore. La protesta degli studenti non esigeva la chiusura della Scuola come dispositivo di regime – come è accaduto storicamente nella storia variegata del movimento studentesco nel nostro paese – ma la sua apertura necessaria.
Mai come ora le nuove generazioni hanno potuto riconoscere che la Scuola non è tanto “un apparato ideologico di Stato” finalizzato alla conformazione della ragione critica all’ordine esistente, come si diceva all’epoca delle grandi contestazioni studentesche della fine degli anni Sessanta e della fine degli anni Settanta, ma un luogo di formazione insostituibile dello stesso pensiero critico. Non si fornisce, dunque, alcun alibi a questa generazione se si riconosce la prova enorme che ha dovuto sostenere. Abbiamo vissuto qualcosa di spaventosamente inimmaginabile. Si è allora costretti a navigare in un canale stretto: da una parte è necessario ora più che mai evitare l’etichettamento “Generazione Covid” che identificherebbe i nostri figli alla posizione nefasta della vittima designata, dall’altra parte risulta però altrettanto necessario evitare il non riconoscimento dell’emergenza e della prova che i nostri figli hanno dovuto sostenere. Ora che la Scuola, come ad ogni fine anno, decreterà i suoi giudizi, diventa decisivo mettere da parte la numerologia della valutazione e le sue aride percentuali – cosa che già avviene nella pratica valutativa illuminata di molti docenti – e considerare invece come includere maggiormente nella vita della Scuola quelli che si sono persi, che hanno avuto timore, che sono rimasti indietro.